Se fosse veramente un film che esalta la potenza del cinema per quale motivo i protagonisti, così dediti e innamorati della settima arte (vedi le ripetute apologie del personaggio interpretato da Brad Pitt), sono sempre trattati come degli idioti? Se davvero il cinema fosse quella grande passione che spinge Chazelle a non attaccarsi alla rastrelliera, per quale motivo odia i suoi personaggi?
A Damien Chazelle non piace il cinema. È indubbiamente molto bravo se ha convinto i produttori a ricevere ancora una volta una vagonata di milioni per il suo nuovo lungometraggio, ma le sensazioni che restano fanno pensare solamente a buone pagelle scolastiche. Già dalle prime immagini, una cascata di merda d'elefante e una golden shower su un uomo in sovrappeso, la dichiarazione d'intenti è dubbia. Chazelle caga sulle origini di Hollywood, ci piscia sopra e poi vomita tutto ciò che è rimasto o distrugge per creare un'epopea personale? Perché il ciclo di autodistruzione diegetica è palese nell'incessante grandeur che il regista di Providence prova a creare, ma i fini sono dubbi. Se vogliamo continuare ad accettare dogmaticamente la citazione di Capote sul buon gusto tanto amato dai cinefiletti possiamo farlo senza problemi, e anzi si può completamente ignorare e continuare il ragionamento percorrendo un'altra via.
Ci può confondere continuamente con l'infinita musica martellante, con il montaggio serratissimo, la grandezza (scenografica, registica e coreografica) di alcune scene, ma tutto viene smascherato nel momento in cui prova a utilizzare un'altro linguaggio: quello del cinema muto. Possiamo trovare una sezione precisa nella quale viene a galla l'incompetenza di Chazelle in materia: subito dopo la prima festa, inquadrata con l'occhio scandalizzato di un ragazzino che ha appena aperto Hollywood Babilonia di Kenneth Anger e scopre il mondo degli eccessi dell'era del muto, troviamo una scena a montaggio alternato tra il set su cui recita Nellie LeRoy (Margot Robbie), un insieme di set nel deserto completamente in preda al caos, e un altro set su cui recita Jack Conrad (Brad Pitt), alle prese con un regista completamente folle à la Erich von Stroheim. In questa scena l'autore prova a sperimentare con l'immagine del muto inquadrando una Margot Robbie sgraziata dall'inutilità estetica di queste immagini.
A differenza dell'ultimo capolavoro tarantiniano, Once upon a time in Hollywood, film al quale è ovvio pensare in rapporto quasi speculare a questo, nel quale la narrazione era magistralmente costruita su una semplicità lineare narrativa ma su uno straordinario e complesso intrecciarsi di livelli cinematografici e storici, qui l'obiettivo è puramente visivo: il caro Damien si diverte molto a giocare con gli opposti, bianco e nero contro colore, trambusto contro tranquillità, talento contro fortuna, ma ciò che arriva allo spettatore sono inquadrature orribili che non hanno niente della grandezza del linguaggio del muto. I baci sono tremendi e i balli altrettanto, non c'è nessuno sforzo nel provare a riprodurre la sensualità, il cambiamento, come possiamo vedere nell'ultima sequenza. Manny, tornato dopo vent'anni alla città degli angeli per mostrare alla famiglia i luoghi della sua gioventù, non sembra invecchiato di un giorno. La leccata ai capelli e un poco visibile principio di calvizie dovrebbero risolvere il problema del cinema, la credibilità. Non è richiesto lo sforzo interpretativo, ma probabilmente solo la fiducia che il cinema possa risolvere tutto. Ma c'è una differenza tra la fiducia nello spettatore e la fede dello spettatore, come narrato nell'ultima ed ennesima grande opera di M. Night Shyamalan, Knock at the Cabin (2023).
Al quinto lungometraggio il problema di eterogeneità dei film di Chazelle, a mio avviso, si fa sempre più lampante. Babylon è la summa della sua produzione fino a questo momento e rappresenta un puzzle così forzatamente stratificato da rendere palese la mancanza di una filosofia autoriale e quindi una visione d'insieme su cosa vuole raccontare.