Introduzione
Considerato uno tra gli avvenimenti più importanti della seconda metà del Novecento, alla caduta del muro di Berlino sono stati dati numerosi significati: la fine delle ideologie, la nascita di un nuovo mondo in cui la globalizzazione fosse veramente possibile, la liberazione di più popoli o il suo definitivo ingabbiamento nelle logiche dell’economia di mercato.
Nella vasta letteratura e ricerca sulle conseguenze della caduta del muro di Berlino, l’attenzione è stata posta principalmente su quelle economico-politiche tralasciando un aspetto a mio parere fondamentale, l’arte in tutte le sue forme.
Vista l’importanza del cinema classico sovietico sia nella storia del mezzo cinematografico sia in quella della nazione e la mia grande passione per la settima arte, ho trovato interessante basare la mia ricerca sui cambiamenti produttivi e tematici nel periodo in cui è avvenuto il passaggio da Unione Sovietica a Federazione Russa.
Ho costruito il percorso di ricerca attraverso tre capitoli. Il primo si occupa di contestualizzare e dare un’idea dell’importanza dell’arte in Unione Sovietica in quattro sotto capitoli che affrontano le sue caratteristiche, il ruolo dell’ideologia socialista, le libertà e uno degli ultimi esempi di cinema di propaganda. Per questo è stata fatta una selezione: ho deciso di trattare in modo particolare il regista Ejzenstein perché principale rappresentante del manifesto del cinema sovietico, senza sottovalutare l’importanza di altri autori, quali Dziga Vertov o Aleksandr Dovzenko.
Dal secondo capitolo mi concentro sulla fase precedente e quella successiva al crollo dell’URSS, analizzando prima i successi e i fallimenti della perestrojka cinematografica e in seguito dando una breve panoramica sugli autori (registi) principali.
Nella terza e ultima sezione mi concentro sull’idea di trovare un’eterogeneità nel cinema russo degli ultimi anni, concentrandomi sul periodo che va all’incirca dal 2010 al 2020.
Le principali difficoltà riscontrate durante il mio percorso di ricerca hanno riguardato la vastità del tema. La selezione è stata fatta, ad esempio, sulla decisione di raccontare solo del primo periodo del cinema sovietico, ignorando ciò che è successo dagli anni Trenta fino a un decennio prima del crollo.
A questo proposito non mi è stato possibile approfondire il ruolo di alcuni autori contemporanei: ve ne sono di straordinari che non ho avuto la possibilità di citare, poiché preferivo concentrarmi su alcuni con tratti significativi coerenti con il periodo storico affine alla ricerca.
In questo sono stato aiutato dalle fonti bibliografiche, le più rilevanti tra quelle selezionate, decisamente complete per affrontare ciò che stavo trattando nonostante qualche difficoltà, soprattutto per quanto riguarda la comprensione di alcuni testi tecnici in lingua francese. In particolare, mi sono principalmente servito delle raccolte di saggi Cinema russo contemporaneo, edito da Marsilio e curato da Giovanni Spagnoletti e Le cinéma russe, de la perestroïka a nos jours, edizioni Charles Corlet e curato da Marion Poirson-Dechonne. Entrambi hanno l’utile caratteristica di essere una via di mezzo tra estetica cinematografica ed economia. A supporto dei libri ho usato alcuni articoli web e l’enciclopedia Treccani.
1.1. L’importanza della settima arte in URSS
1.1.1. Le caratteristiche del cinema sovietico
“Riteniamo che il compito supremo dell’arte della nostra epoca sia di partecipare coscientemente e attivamente alla preparazione della rivoluzione.” Lev Trockij, André Breton, Diego Rivera, Per un’arte rivoluzionaria indipendente, 1938 “Noi portiamo la creatività nel lavoro meccanico, noi imparentiamo l’uomo alle macchine, noi formiamo uomini nuovi. L’uomo nuovo, liberato dalla pesantezza della goffaggine, capace di movimenti leggeri e precisi come quelli delle macchine, sarà il soggetto della nostra macchina da presa.” Dziga Vertov, Noi, 1922
Forma espressiva più caratteristica del Novecento, il cinema è stato protagonista assoluto dell’arte di massa di questo secolo. Ha sostituito il teatro relegandolo alle frequentazioni borghesi e con le sue evoluzioni, la televisione e lo streaming, caratterizza le parti fondamentali nella ricezione dell’arte della società contemporanea. Oltre al potere attrattivo nei confronti della popolazione, un ruolo fondamentale nel definirne la potenza sono stati i regimi totalitari del ventesimo secolo, in particolare quelli di Hitler, Mussolini, Lenin e Stalin. “Il cinema è l’arma più forte”, diceva Benito Mussolini, ma i primi ad averlo capito sono stati i sovietici, a cui arriveremo dopo. Il cinema dal 1895 agli anni Venti del Novecento è stato il mezzo artistico delle provocazioni, per una sua componente quasi scontata ma importantissima: non era ancora stato codificato, regolamentato (nel senso di gestito da alcune auctoritas che nessuno aveva il coraggio di smentire). Non c’era nessuna tradizione, nessun filone da disintegrare e ricomporre a proprio piacimento.
Autore fondamentale di questo decennio è Sergej Michajlovič Ėjzenstejn (Riga, 1898 – Mosca, 1948), in particolare con l’ideale trilogia di Sciopero! (1924), La corazzata Potëmkin (1925) e Ottobre (1928). Capolavori senza tempo, questi tre film hanno cambiato completamente la concezione del ruolo del montaggio nel cinema, trasportando i suoi insegnamenti fino ai nostri giorni. Oltre alla pura analisi tecnica-formale di queste opere, un’altra componente decisamente interessante da osservare è il ruolo che questo cinema aveva, un ruolo che quest’arte non aveva mai assunto (e in realtà nessun’altra a questi livelli). Nell’Unione Sovietica il cinema ha assunto il ruolo stesso della rivoluzione e della propaganda, con degli obiettivi che definire ambiziosi è poco: il formalismo leninista di Ėjzenstejn (Siniscalchi, 2008) è il tentativo di creazione dell’uomo nuovo, homo bolscevicus, basato sui principi di equità e il resto che la retorica comunista comporta. Ciò che viene narrato nella trilogia già citata è sempre un’esaltazione del popolo russo: all’inizio con l’esordio, la prima volta in cui le masse sono rappresentate ed esaltate su schermo e la condizione pre-Rivoluzione d’Ottobre, nel secondo narrando nei primi tentativi di ribellarsi al dispotismo zarista riprendendo la Rivoluzione Russa del 1905 (La corazzata Potëmkin) e nel terzo, commissionato per l’anniversario dai 10 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, evidenziando l’esaltazione massima di quel fatto storico che segnerà i rapporti geopolitici del secolo: la formazione dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Dalla parabola dell’epica ejzenstejniana si comprende il ruolo di quest’arte nella neonata società comunista: creare l’identità sovietica. La ragione è presto detta: è l’arte di massa definitiva in quanto universalmente accessibile, quali potevano essere l’alto tasso di analfabetismo che ha impedito alla letteratura di assurgere a questi livelli. Il cinema è rivolto alla massa soprattutto per il suo essere estremamente costoso in termini produttivi, e lo è anche oggi, nonostante si possa girare un film con uno smartphone. (Buttafava, 2000, pp. 23-49 / Siniscalchi, 2008, pp. 87-103 / Fofi, 2008, 33-48)
1.1.2. Ruolo dell’ideologia socia
L’importanza dell’ideologia socialista nel cinema è lapalissiana, si potrebbe paragonarla alla poesia medievale e capire il grande cambiamento del Novecento: la creazione della religione civica. Processo iniziato nella prima metà del diciannovesimo secolo con la nascita dei primi sentimenti nazionalisti e antimperiali (dove per imperiali si intende una copertura governativa su più regioni geografiche facilmente distinguibili), i grandi totalitarismi ne sono la diretta conseguenza. Nell’aizzare il popolo contro un regime centrale, chi desiderava l’unificazione di quella che veniva considerata come una propria nazione ha avuto bisogno di strumenti per far affezionare i cittadini alla causa, e da qui vengono le feste nazionali che portano all’esaltazione dogmatica della patria. Tutto ciò ha ulteriormente portato a una diminuzione nell’importanza della religione, cercando di costituire quella che ho citato come religione civica, dell’essere comunità. L’importanza ed esaltazione della massa è straordinariamente riportata nei film di Ėjzenstejn attraverso una totale assenza di psicologia dei personaggi, completamente in contraddizione con l’assunto fondamentale della letteratura del secolo, ovvero la riflessione sul piano psicologico, influenza delle teorie freudiane e junghiane. Da questo si evince il totale anti-individualismo della dottrina statale (quasi imperiale visti gli inestinguibili fini espansionistici dei sovietici), che è caratteristica fondamentale dei regimi totalitari, in quanto antiliberali. (Buttafava, 2000, pp. 36-49)
1.2. Libertà artistiche
Dopo la nazionalizzazione del cinema avvenuta nel cinema per decreto di Lenin, l’altro passo fondamentale è stata la nascita spontanea del realismo socialista, corrente artistica sviluppatasi dalla fine degli anni Venti che diventerà la forma d’arte ufficiale e di bandiera della URSS. I presupposti principali sono il legame inscindibile tra arte e progresso sociale e politico, ed è stato fondamentale in quanto è stata la prima vera corrente artistica che è riuscita a formalizzare le logiche di pensiero sovietiche. Questo
ha però portato diversi danni alla libertà artistica: laddove prima non c’era uno schema predefinito per far accettare contenutisticamente la propria opera d’arte all’ufficio censorio, l’averne definito i limiti ha portato ha numerosi danni sia alle creazioni stesse quanto ai loro creatori, in quanto si avvicinava quel periodo oscuro che inizierà le purghe staliniane.
Stare ad elencare effettivamente cosa si poteva mostrare è un tema complicato in quanto estremamente sfaccettato, poiché il Goskino (la Commissione di stato per il cinema sovietico) ha coperto tutti i settant’anni della storia dell’Unione (nonostante sia nata con questo nome negli anni Sessanta, esisteva dal 1922 sotto il Ministero della cultura) cambiando più volte approccio a ogni cambiamento politico (inteso come le correnti di pensiero, dato che alla base restava sempre comunismo). È però interessante notare come non solo le critiche velate al sistema politico in sé fossero soffocate, ma anche temi come la religione, andando proprio a cogliere lo spirito del totalitarismo dove questo cerca di inserirsi anche nelle sfere più private dell’individuo. L’URSS è nota per aver provato a eliminare completamente la religione per promuovere l’ateismo, e questo ha portato all’esempio di Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij (Zavraz’e 1932 – Parigi 1986). Quest’ultimo, regista tra i più importanti e acclamati dell’intera storia del cinema, inizia i suoi problemi col governo sovietico nel 1966 proprio con il film appena citato, la storia di un pittore di icone religiose realmente esistito. L’aspetto principale delle critiche mosse dal regime riguardava l’importanza della religione, del mistico, caratteristica fondamentale dell’arte russa fino al Novecento, e in secondo luogo la violenza del film, che però sembra solo un pretesto per la parte più importante. Tarkovskij però compie il passo più lungo della gamba, e tra le righe suggerisce un pensiero estremamente coraggioso, ovvero quanto l’arte sia capace di resistere a qualsiasi gesto politico degli uomini, in quanto necessità spontanea di esprimersi, irrinunciabile per nessun uomo. (Buttafava, 2000, 36-48)
Ritornando sul tema Goskino e citando la pagina Treccani a lui dedicata, “Negli anni settanta il Goskino si ammalò di quella superfetazione burocratico-amministrativa comune a tutto l’apparato statale sovietico”. Si può ben capire in che modo l’ultra-burocratizzazione aveva raggiunto un estremo e lo schema seguente permette di capire quanto il Goskino fosse una piovra che soffocava qualsiasi minimo margine di libertà artistica. (Treccani, 2003)
Figura 1: L’espansione del Goskino (schema incompleto)[1]
1.3. Anni Ottanta: sentore della fine? Va’ e vedi di Elem Klimov
In quanto creata dall’urgenza del suo autore, spesso l’opera d’arte ha il ruolo di testimonianza di un’epoca, e il film Va’ e Vedi (1985) del regista Elem Klimov ne è esempio straordinario. Nel periodo in cui l’URSS andava sgretolandosi, il governo tentava qualsiasi via per evitare quel crollo che era solo questione di pochi anni (quei settanta di esistenza che Ludwig von Mises[2] aveva stimato nei primi anni Venti), e una di queste vie è stata l’arte che tanto ha aiutato la neonata nazione, il cinema. Il film di Klimov, opera ormai riconosciuta come tra le più riuscite e intense mai prodotte, storia di un adolescente bielorusso abitante di quella zona tra Bielorussia e Ucraina chiamata “paludi del Pryp”jat’” che decide di unirsi ai partigiani per combattere l’invasione nazi-fascista, è il tentativo di unire ancora una volta quello che fu il grande popolo sovietico. Nell’esaltazione dell'Armata Rossa e di tutto il popolo che si è unito alla lotta, il film cerca di ricordare alla massa la grandezza di chi è riuscito a sconfiggere il Male attraverso un grande amore verso la libertà (ovviamente declinata a seconda del contesto). (Chang, 2020)
1.4. I cambiamenti avvenuti dopo il 1989
1.4.1. Il crollo e la fine dell’industria cinematografica sovietica
Dopo settant’anni di falce e martello e isolamento internazionale, di cui cinquanta di guerra fredda, il 25 dicembre 1991 la bandiera rossa venne deposta in favore di quella tricolore. Sparuti gruppi speravano che non stesse veramente per finire tutto ciò che in sette decenni era stato costruito, ma la storia aveva fatto il suo corso e non si poteva più tornare indietro. Il Putsch di agosto[3] è solo l’ultima fittizia esalazione di un corpo non solo morto ma già in decomposizione, e se questa condizione sia insita nella sua nascita o dall’elezione di Gorbačëv, dalla morte di Lenin e l’ascesa di Stalin, non ci è dato saperlo. Di tanto si è discusso in merito alle responsabilità di questo evento: di chi è stata la colpa? Ci sono davvero dei colpevoli? Senza entrare nei (de)meriti di tutte le parti in gioco, ciò che resta è un’enorme nazione divisa, arretrata, sgretolata nelle sue fondamenta. Le (ex) aziende statali vengono svendute al miglior offerente per un pugno di mosche, si creano quelli che oggi definiamo “oligarchi”[4], veri potenti della nazione più vasta del mondo. Ciò che non cambia è la percezione di noi mitteleuropei: un territorio eterogeneo dove si passa da una miseria assoluta degna di secoli fa a sfavillanti città, da paese capitalista (e quindi globalizzato, tutto il mondo è paese) a terribilmente inquietante per un velato autoritarismo legato al suo presidente, ex KGB con mani in pasta ovunque. È in questo contesto che si muove la rinascita di un cinema nazionale, la tradizione va cambiata radicalmente.
Questo periodo di radicali cambiamenti, raggruppati sotto il nome di perestrojka (ristrutturazione), toccò anche l’ambito cinematografico, in quanto dopo decenni di repressione artistica i registi videro uno spiraglio di quell’agognata libertà. Così il già citato Elem Klimov viene nominato capo del “Sojuz kinematografistov”, ovvero l’Unione dei Cineasti sovietici, e mette in gioco un sistema di riabilitazione di autori e opere appositamente lasciate negli archivi del Goskino. La svolta viene quindi dall’interno, da quell’organo statale creato negli anni Sessanta proprio per ottenere un controllo maggiore sulle opere e i loro creatori. La svolta avviene al Quinto congresso, in cui “Gli esponenti della perestrojka cinematografica iniziarono a voler conciliare l’inconciliabile: proclamarono una riforma di mercato negli studi di cinema e al contempo cercarono di far rinascere il sogno dell’avanguardia rivoluzionaria di un’arte e di uno spettatore ideali. (…) Indossando i panni dei partigiani contro il dominio della partitocrazia, alzarono una barriera contro il cinema ufficiale e ultra-commerciale (...). Tuttavia, la rivoluzione aprì le chiuse: le correnti impetuose spazzarono via la censura e aprirono l’accesso al mainstream hollywoodiano sugli schermi sovietici. La rivoluzione avvenuta durante il Quinto congresso ha liberato il cinema dai dogmi e dai divieti. (…) I grandi artisti, abituati a lavorare in condizioni di censura e opposizione al regime, si trovarono improvvisamente spiazzati e cominciarono ad avvertire dei mali immaginari. (…) il primo problema del cinema post-perestrojka. Esso soffriva per la libertà acquisita e interpretata come un vuoto che si stava aprendo”.
Nella citazione soprastante troviamo numerosi motivi del fallimento del cinema tardo-sovietico e neo-russo, di cui uno molto interessante si lega più all’approccio dei creatori che non a una ragione economica (ad esempio la concorrenza con il cinema hollywoodiano): i grandi autori hanno basato la loro arte (e quindi la loro vita) sulla protesta contro il regime. Questi si sono ritrovati a non aver più niente per cui combattere e a livello tematico si rifletterà nelle tematiche di molti film del decennio, soprattutto in un approccio nichilistico nei confronti del mondo che andranno a raccontare. (Plachov, 2010, pp. 85-98)
1.4.2. L’unione dei cineasti
Con il già citato V Congresso nasce la perestrojka nell’ambito cinematografico, e questo ente avrà molta importanza per i vent’anni successivi. Gli obiettivi principali erano quelli di mettere in causa i “generali” della cultura, ovvero i censori o qualunque persona lavorasse per il Goskino con un ruolo di controllo culturale, la riabilitazione di artisti oscurati e i due più importanti: la ricostruzione dei sistemi di produzione e di distribuzione e tutto ciò che riguarda l’autogestione, l’autofinanziamento e la libertà a favore degli artisti. Grande conquista di questo evento è la legge del 1987 che elimina gli intermediari e permette agli studi produttivi russi di negoziare direttamente con i partner stranieri.
Nonostante tutte le buone intenzioni, molte di queste idee saranno fallimentari per diversi motivi. Innanzitutto, la richiesta di Klimov al Goskino, ovvero di interrompere il monopolio, crea problemi poiché invece di togliere la parte inutilmente burocratica viene aggiunto un direttore di studio, responsabile della negoziazione tra Unione e quest’ultimo. Inoltre, viene accettata la proposta di legge per rendere segreti i profitti dei film. Se a prima vista può sembrare una buona idea, dato che avrebbe permesso una certa riservatezza tra affari privati e Stato, essa porterà a diversi problemi legati alla corruzione (in questo contesto spopolerà infatti il termine otkat, letteralmente “ricompensa”, ovvero le mazzette che sarebbero finite soprattutto nelle tasche dei funzionari statali che avevano concesso le sovvenzioni. Questo soprattutto nel periodo compreso fra 1996 e 2002, periodo d’oro del riciclaggio di denaro sporco nell’ambito cinematografico. Nel 1996 vennero accettate delle norme atte ad agevolare la tassazione sui film. Le seguenti parole sono riportate da Ksenija Leont’eva nel breve scritto “La produzione cinematografica e la distribuzione in Russia”: “Nel corso degli ultimi 10 anni (il testo è stato pubblicato nel 2010, NdR) sono gradualmente mutati i principi statali che regolano l’industria cinematografica. Nella legge del 1996 erano state stabilite le seguenti norme riguardanti la tassazione agevolata per il comparto cinematografico: è esente da tassazione l’utile ricavato dalla realizzazione della produzione cinematografica o quello dei diritti d’autore; è esente da tassazione l’utile ricavato dalla post-produzione dei film, da reportage cinematografici, dalla stampa delle pellicole, dalla loro distribuzione e proiezione, utile destinato al finanziamento di investimenti da capitale delle competenti ditte cinematografiche; è esente da tassazione l’utile ricavato dalla valorizzazione di materiali e attrezzature cinematografiche, e destinato al finanziamento degli investimenti di capitale delle competenti ditte cinematografiche sono esenti dal pagamento dei dazi doganali e da tassazione varie le attrezzature, i prodotti e i materiali cinematografici importati nel territorio della FR ed esportati dallo stesso da parte di società cinematografiche; è esente da tassazione l’utile ricavato da qualunque ditta-indipendentemente dal suo status organizzativo e giuridico- destinato alla produzione, alla stampa, alla distribuzione e alla proiezione dei film.
L’abolizione di queste norme, datata primo gennaio 2002, è il sintomo di una Russia che cerca di arginare gli enormi problemi legati alla criminalità sorti (in realtà riportati ed ampliati dal periodo sovietico) all’inizio del periodo federalista. Sono due gli esempi principali di questa “contabilità flessibile”, chiamata così da Tom Bircenough. Il primo è I Romanov: una famiglia imperiale (2000) di Gleb Anatol’evic Panfilov e il secondo Il barbiere di Siberia (1998) di Nikita Michalkov. Due fallimenti totali, con un budget stimato rispettivo di 18 e 45 milioni di dollari e un incasso in patria di 100'000 dollari e 2.5 milioni. Ma qual è il motivo? I soldi della produzione venivano riciclati, infatti non vi fu nessun interesse a una buona promozione delle opere.
Negli anni successivi l’Unione non ha più avuto lo stesso ruolo, ha avuto anzi il ruolo contrario di quello del V Congresso. Questi avvenimenti ruotano tutti intorno alla figura di Nikita Michalkov. Regista tra i più importanti degli ultimi 30 anni (Leone d’Oro nel 1991 e Premio Oscar al miglior film straniero nel 1995), alla sua nomina di presidente dell’Unione nel 1997 era visto come l’uomo della provvidenza per il cinema russo. Figura decisamente controversa per il nazionalismo e l’amicizia con Vladimir Putin, il suo sostegno all’autocrazia traspare anche dal modo in cui affronta le responsabilità in questo ruolo. Innanzitutto, pone delle condizioni che gli permettano di ottenere il maggior potere possibile e chiede allo Stato di non mostrare film in cui ci siano storie problematiche, violente o legate alla prostituzione. Già da questo momento si capisce che la sua nomina potrebbe essere stata un errore, poiché ricorda i generali del Goskino. Organizza un nuovo congresso nel 1998 in cui non invita altri delegati che non siano quelli che condividono le sue idee come attacco all’Unione Moscovita, sezione indipendente dall’Unione Russa di tendenza liberale. Per 10 anni non avverrà niente di rilevante, tranne una controversia su un enorme studio cinematografico e la sua appartenenza. Nel 2008 viene eletto il regista Marlen Khoutsiev, ma prontamente Michalkov fa ricorso e grazie a qualche mossa politica ritorna al suo posto. Dall’amicizia con Putin nasce il “Fondo federale di sostegno sociale ed economico al cinema russo” di cui M. è l’unico operante nel mondo del cinema. In tutto questo è difficile non vedere delle macchinazioni per tornare a un sistema di controllo che rimanda a quello sovietico con maggiore corruzione. (Bircenough, 2010, pp. 53-62 / Darmon, 2010, 33-37)
1.4.3. I nuovi metodi di produzione e distribuzione
Nonostante le concessioni per investimenti semi-privati nella seconda metà gli anni Ottanta, i registi (ex) sovietici si ritrovarono a lavorare in un sistema completamente nuovo. La scoperta del ruolo del produttore (prima denominato direktor kartiny che era un funzionario del Goskino), la necessità di richiedere investimenti privati e la difficoltà nel competere con i film piratati arrivati dopo la fine dell’isolamento internazionale, questi erano i primi cambiamenti causati dalla transizione. Il punto fondamentale, però, resta il ritorno a una libertà, che come vedremo non verrà mai ottenuta. Facendo un passo indietro e tornando al V Congresso, le strade che si aprivano erano innumerevoli: prima la privatizzazione totale della Mosfilm, la casa di produzione più importante del paese, che porterà alla creazione di numerose piccole aziende operanti nel mondo del cinema, mentre la Lenfilm diventa un “Associazione non commerciale dei gruppi di produzione”. Viene costituita un’associazione americano-sovietica, la ASK (“Amerikano-sovetskaja kinoiniciativa), nascono le prime associazioni di classi lavorative (attori, scenografi, produttori), ovvero sindacati, realtà assente nel paese fino a quel momento. La svolta più importante è il decreto del 1989 che autorizzava la libera produzione privata dei film e la loro distribuzione e vengono anche incentivati attraverso la creazione dei 156 uffici della KVO, ovvero un sistema frammentato per il paese che unisse e facilitasse la compravendita delle opere da distribuire. Era un sistema complicato che lo storico del cinema Joel Chapron (2010) divide nei seguenti quattro tipi di rapporto produttore-distributore: tradizionale, distribuzione semplice a due fasi, distribuzione semplice a una fase e vendita di licenza. Il primo seguiva la semplice correlazione tra produttore (Stato)- gli uffici KVO – sale cinematografiche. Il secondo riguardava soprattutto i film stranieri e metteva in relazione i detentori dei diritti cinematografici con il KVO o i sindacati, e questi ultimi si occupavano di farli arrivare alle sale cinematografiche. Il terzo toglie la fase intermedia creando un rapporto diretto i detentori dei diritti e le sale cinematografiche e il quarto era la vendita diretta da parte dei detentori a una regione specifica. Da questi esempi si può notare come il mercato stesse già andando per conto proprio, nonostante lo Stato sovietico esisteva ancora e cercava di evitare una deregolamentazione totale.
L’altra componente della distribuzione concerneva l’esportazione delle opere, fino al 1989 monopolio dello Stato. Questa fine fu comportata da una discussione tra Oleg Roudnev, direttore della Sovexportfilm, e Vladimir Dostal, direttore della Mosfilm e sostenitore dell’indipendenza nella vendita all’estero delle proprie opere. Questa apertura non aveva considerato numerosi problemi insiti nel sistema: l’incapacità di rendere attrattivi i propri prodotti ha comportato una stagnazione nel mercato, poiché la domanda di film sovietici all’estero, soprattutto vista la loro scarsa qualità, era notevolmente bassa.
Qui di seguito è presente una tabella contenente i dati annuali dei film di finzione prodotti e distribuiti in URSS per il periodo 1991-1998 e quanti tra questi sono stati prodotti con il sostegno (nella maggior parte parziale) dello Stato:
Figura 2: La produzione nazionale russa dal 1991 al 1998 e il ruolo dei finanziamenti statali. [5]
Da qui possiamo confermare, dal lato produttivo, quanto il cinema abbia seguito la crisi economica causata prima dal crollo dell’Unione e dalla cosiddetta “crisi del rublo” poi, ovvero una grande crisi economico-finanziaria che ebbe il suo apice con la svalutazione della moneta russa ad agosto del 1998. Moltissimi insider considerano il cinema russo sull’orlo del fallimento, tanto che anche uno dei grandi registi russi contemporanei, Aleksei German, pronuncerà parole terribili nei suoi confronti, dicendo che se dovesse veramente scomparire, nessuno se ne accorgerebbe. Lo slancio verso una rinascita viene dato da una legge del 17 luglio 1996 e prevede che il finanziamento dello Stato può rappresentare fino al 100% del costo di produzione di un film e fino al 70% delle spese di distribuzione. Si fa un passo indietro, ci si allontana dalla perestrojka e dall’indipendenza finanziaria che qualche anno prima venne chiesta a gran voce dagli esponenti dell’Unione dei Cineasti. Che sia l’inizio di una nuova era di controllo statale sulle opere cinematografiche? Fortunatamente no, anche se qualche esempio è presente ma soprattutto da un ostracismo molto sostenuto dalla politica. (Chapron, 2010, pp. 43-59 / Chapron, 2009, pp. 34-42 / Leont’eva, 2010, pp. 39-52 /Vaissié, 2010, pp. 20-26)
1.4.4. I nuovi autori e le rotture con la tradizione artistica socialista
Questa straordinaria acquisizione aveva portato la critica cinematografica internazionale a credere che sarebbe nato finalmente un cinema omogeneo, una “nouvelle vague” russa. L’Unione Sovietica ha sorpassato quel passaggio: i Sixties sono stati il decennio della rivoluzione, anche in ambito cinematografico: i giovani turchi della nouvelle vague francese (Jean-Luc Godard e Francois Truffaut sopra tutti) avevano preso il cinema classico americano e lo avevano distrutto e ricomposto a loro piacimento. Il breve sogno della “Nová Vlna” in Cecoslovacchia, anch’essa fortemente eterogenea ma caratterizzata da una libertà incredibile, era stata un miracolo per qualità e influenza (basti vedere “Le margheritine” di Vera Chytilova, straordinario e attualissimo nel rappresentare la libertà del genere femminile), oppure la “Nuberu Bagu”, capitanata da Nagisa Oshima e Hiroshi Teshigahara tra gli altri. Tutti questi punti comuni sono incredibili poiché si svolgono in luoghi diversissimi tra di loro: una repubblica, uno stato comunista e un’isola dall’altra parte del mondo che stava scoprendo il capitalismo. Tutto questo non è mai successo in URSS, dopo il realismo socialista è difficile rintracciare delle correnti artistiche che non siano una forzatura. Basti pensare che il più ricordato tra i registi sovietici è il già citato Andrej Tarkovskij, le cui caratteristiche lo portano più ad essere accomunato alla letteratura anteriore alla Rivoluzione d’ottobre anziché ad un rappresentante del socialismo reale. Stessa cosa per quello che molto probabilmente è il più grande regista russo vivente, Aleksandr Sokurov. Definito il figlio spirituale di Tarkovskij, Sokurov si muove tra cinema intimista (La voce solitaria dell’uomo, Madre e figlio, Padre e figlio, Faust), analisi storica (la trilogia del Potere composta da Toro, Moloch e Il sole, rispettivamente sulle figure di Lenin, Hitler e l’imperatore Hirohito, in realtà composta anche della trasposizione dell’opera di Goethe) ed echi della Russia zarista (Arca Russa, Elegia Moscovita). Queste opere, le più amate da pubblico e critica fuori dai confini nazionali, portano poche tracce del passato sia dell’autore sia di quella che per quarant’anni è stata la sua nazione (Sokurov nasce nel 1951), probabile sintomo di un disinteresse nei confronti di un cinema del reale che ha già avuto il suo apice, preferendo l’artista come colui che si innalza sopra la sua epoca per parlare all’umanità tutta. Interessante la prospettiva di Alena Shumakova che descrive queste opere come “l’espressione dell’epoca della fine delle ideologie, non tanto per la sfiducia nella retorica e nei dogmi ma per lo spostamento d’interesse a livello dei rapporti micropolitici ovverosia quelli non dichiaratamente ideologici, statali, bensì i rapporti interpersonali fatti di umiliazioni, costrizioni e possessi.” Per tutti questi motivi le aspettative furono deluse: citando Andrej Plachov, negli anni Novanta non vi fu “nouvelle vague” della Federazione Russa, bensì un suo surrogato privo di qualsiasi interesse artistico da lui definito come “ultramodernismo moscovita”. Nonostante il parere di Plachov, qualche autore decisamente interessante è emerso, e in particolare Andrej Balabanov. In contrapposizione a Michalkov nel suo elogio della nazione dall’Ottocento fino al contemporaneo, Balabanov mostra solo il lato oscuro dei soggetti raffigurati. La Pietroburgo sfarzosa non esiste (e forse non è mai esistita), al suo posto troviamo il grigio di un’epoca che si porta dietro decenni di errori e di una transizione che nel breve periodo poteva solo provocare danni. I personaggi sono spietati, la criminalità è l’unico modo di sostentazione in un’accezione quasi mafiosa, laddove l’unica possibilità di non ritrovarsi soli in queste gigantesche metropoli è il rapporto familiare, non solo inteso di sangue. È il caso di Brat (Brother, 1997), storia di un reduce che in seguito al rifiuto di arruolarsi come poliziotto raggiunge il fratello a San Pietroburgo, quest’ultimo killer per il boss mafioso della zona. Il film è l’epopea di un ragazzo come tanti nella Russia post-sovietica che si ritrova in questa caleidoscopica avventura, manifesto di un cinema completamente libero che non deve più né rendere conto a qualcuno, tantomeno avere una funzione pedagogica e manichea. (Barran, 2013, pp. 75-82 / Fofi, 2008, pp. 260-263)
1.5. La cinematografia a trent’anni dalla caduta dell’URSS
Dopo aver analizzato diversi passaggi nella storia del cinema russo – quello fortemente ideologizzato, gli allentamenti, il suo imminente fallimento – ciò che rimane da osservare è il medium cinematografico a trent’anni dal crollo. C’è stata omogeneità? Il New Russian Cinema esiste veramente? La risposta è un sì parziale. La saggista Alena Shumakova offre una visione interessante ma non più applicabile. Distingue due “realtà” principali nel cinema Art House contemporaneo (come definito dagli stessi russi): il grande cinema dei maestri – Sokurov, Muratova, German- e la nuova generazione, definita come il cinema dell’indifferenza dolorosa. Stilati partendo dall’esempio di Michail Jampols’skij e le sue “sante triadi” degli anni ’70, Andrej Tarkovskij, Otar Iosselani e Sergej Paradzanov, questo schema non è più applicabile perché nel 2022 due terzi dei componenti sono deceduti (la seconda da quasi quattro anni, il terzo da nove). Si potrebbe dire che il figlio di German, Aleksei German Jr., stia continuando il lavoro del padre ma resta una componente non associabile al cinema cosiddetto classico. (Shumakova, 2010, pp. 99-116)
Se vogliamo tracciare una linea ideale che ci porti dalla nascita del cinema d’autore russo a oggi potremmo far coincidere il punto di partenza con Il Ritorno, di Andrej Zvjagincev. Questo perché è il momento della rinascita, un film russo di un regista esordiente viene presentato a un grande festival e vince il premio principale, in questo caso trattasi del Leone d’Oro alla sessantesima edizione della Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia. Quello di Zvjiagncev è un cinema puramente post-sovietico, che attinge a piene mani dal classico senza inventare molto ma è l’approccio a stupire. Ciò che ha iniziato con l’esordio è arrivato alle estreme conseguenze con l’ultimo film prodotto dal regista, Loveless (2017). Oltre alle estreme, è anche un discorso di conseguenze naturali. Questo film non solo è senza amore, come suggerisce il titolo, ma è completamente asettico, le emozioni non esistono, è tutta una battaglia egoistica in cui un bambino scomparso diventa il pretesto dei genitori di accusarsi l’un l’altro. L’inverno moscovita è gelido e i palazzoni rimandano al grigio dell’epoca sovietica. La fotografia non ha un momento di calore, i colori sono sempre freddi. Tutto è coerente e tutto porta a un’aridità totale di sentimenti. Come scrive Shumakova “il tratto principale del cinema d’autore all’epoca di Putin è indubbiamente caratterizzato dalla freddezza, una freddezza simile all’anestesia, simile al vetro coperto di brina. La lente magica attraverso la quale i giovani filmmaker guardano il mondo è indubbiamente un pezzo di ghiaccio.” Ed è questo il tratto principale con cui si distinguono i nuovi registi da quelli che hanno vissuto consapevolmente il crollo dell’URSS: lo sguardo è verso il presente o al massimo un passato recente, il tema della crisi delle ideologie è più trattato. L’assunto di partenza è che le ideologie sono state un’illusione e ciò che domina è un nichilismo in cui l’unica cosa che gli autori vorrebbero far emergere sono i sentimenti, ma in un’epoca come la nostra è tra i compiti più ardui. Ed è su questo punto che Zvjiagncev si fa portavoce della sua generazione, poiché in tutti i suoi film si può cogliere questa “indifferenza dolorosa” che è l’unico punto in cui convergono i nuovi autori. L’indifferenza da tutto, tolto il dolore. Forse la condizione più terribile che si possa esperire, ma d’altronde chi non è mai stato male non ha mai fatto arte. (Shumakova, 2010, pp. 99-116).
Conclusione
Giunto al termine del mio lavoro di ricerca, sono in grado di rispondere all’obiettivo che mi ero prefissato? Ho individuato i riflessi che la transizione da Unione Sovietica a Federazione Russa ha proiettato nel sistema produttivo e nell’animo dei registi del settore cinematografico? La risposta a una domanda simile non potrà mai essere esauriente, ma credo che nella semplicità di questo lavoro sia arrivato a delle conclusioni interessanti.
Lo studio è stato indirizzato verso tre ambiti: produttivo, distributivo e tematico.
Il primo e il secondo sono molto legati fra loro poiché la situazione dopo il crollo del muro di Berlino è stata caratterizzata da una dissoluzione totale dei vecchi modi di produrre e distribuire.
Dal lato produttivo la conseguenza inevitabile è stato l’allineamento con le altre nazioni nella ricezione delle opere prodotte: laddove prima la parte fondamentale degli incassi al botteghino riguardava il mercato interno, l’apertura a un’economia di mercato ha permesso l’entrata dei film hollywoodiani in tutte le sale russe senza il filtro del Goskino, mandando a picco le entrate delle poco interessanti produzioni nazionali.
Dal lato della distribuzione non ha aiutato: partendo dal fatto che la mediazione tra case produttrici e partner internazionali non necessitava più della mediazione del Goskino sono nate troppe aziende e opere rispetto a quelle richieste dal pubblico internazionale.
A livello tematico invece è stato interessante notare come il formalismo dell’arte “alta” sovietica abbia passato il testimone a una generazione di registi che portavano con loro una prospettiva nichilista e rassegnata verso quelle promesse che erano state fatte sul loro futuro, soprattutto riguardo la rinascita della nazione Russa.
Per quanto riguarda i limiti del lavoro trovo che uno sia preponderante, ovvero l’eccessiva sintesi e l’aver dovuto rinunciare alla spiegazione di alcune epoche storiche. Questo perché non volevo fare del mio lavoro una presentazione di storia del cinema sovietico e l’accento era da mettere sul periodo della transizione economico-politica.
Un approfondimento interessante avrebbe potuto riguardare il modo in cui gli autori, sia quelli che hanno vissuto il prima, sia i contemporanei, hanno riflettuto sul periodo sovietico attraverso questo mezzo. Ciò che mi ha fatto desistere nell’avventurarmi in questo tema così interessante è stata la mancanza di fonti, soprattutto quelle bibliografiche.
Una ricerca improntata su questo aspetto mi avrebbe portato a raccogliere numerose analisi/recensioni singole su svariati film in diverse lingue, andando incontro anche alla possibilità che non esistano, visto che i film russi si trovano quasi solamente in festival cinematografici.
Inoltre, trovo ingiusto aver trattato solamente film di finzione, poiché il documentario e la video-arte sono generi molto in voga nel panorama ormai underground del cinema russo. Per il primo genere citato, ho deciso di ignorarlo perché trovavo molto più complessa la sua trattazione, visto che i documentari sono soliti avere più paesi di produzione, e quindi più punti di vista. Per il secondo, la video-arte, ho trovato che fosse un argomento troppo distante dal cinema classico, che avrebbe richiesto una sua contestualizzazione specifica diversa, con notevoli digressioni riguardanti la storia dell’arte.
In conclusione, credo che nonostante i vari limiti e le difficoltà riscontrate questo lavoro possa essere considerato utile ad avere una panoramica su un argomento così poco conosciuto al di fuori degli appassionati (e anche al suo interno potrei avere dei dubbi) e che riguarda una nazione fondamentale anche nel panorama geopolitico, in quanto tra le grandi superpotenze del mondo contemporaneo.
Studiare l’arte di un popolo significa studiare il suo pensiero e il modo che ha di atteggiarsi al mondo, anche se non omogeneo, e quindi credo sia importante usare gli strumenti che ci ha fornito per analizzare queste opere estetiche che tanto hanno da dire su una realtà incredibilmente complessa come quella russa.
Fonti bibliografiche
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[1] Elaborazione personale dalle informazioni contenute nella pagina Treccani dedicata al Goskino [2] Nato nel 1881 e morto nel 1973, Ludwig von Mises è stato uno degli economisti più influenti del Novecento, esponente di spicco della scuola economica austriaca e quindi del pensiero liberale. [3] Per Putsch di agosto si intende il tentativo di colpo di stato tra il 19 e il 21 agosto 1991, organizzato da alcuni membri del governo sovietico. L’obiettivo era quello di preservare l’Unione Sovetica e il suo potere centrale. [4] L’oligarchia orma di regime politico in cui il potere è nelle mani di pochi, eminenti per forza economica e sociale (Treccani). Nella Russia contemporanea gli oligarchi corrispondono principalmente alle persone che hanno saputo sfruttare conoscenze politiche per acquistare le ex aziende statali durante i primi anni Novanta, durante l’era della privatizzazione. [5] Elaborazione personale tratta dallo schema di Chapron, 2010, p.46