Come vale per altre materie di studio, la storia della musica ha i suoi episodi più interessanti nelle spaccature, negli scismi, in quei momenti in cui niente potrà essere come prima. Sappiamo tutti che nella realtà un avvenimento sconvolgente lo è veramente una volta visto dai posteri: siamo soliti far iniziare l’età moderna con l’arrivo di Colombo nelle Americhe ma è palese che il cambiamento da quel 12 ottobre al giorno dopo abbia effettivamente comportato qualcosa nel breve termine. Un altro esempio di questo modo di intendere alcuni avvenimenti è l’album omonimo dei Velvet Underground & Nico uscito nel 1967. Ora la critica musicale lo considera come uno dei lavori più seminali della storia del rock ma alla sua uscita vendette poco più di 30'000 copie, nonostante la supervisione di una delle persone più influenti nel mondo dell’arte di tutto il secondo novecento, Andy Warhol. Su questo disco Brian Eno, personalità tra le più importanti ed eclettiche del mondo musicale degli ultimi cinquant’anni, disse “L’altro giorno stavo parlando con Lou Reed (frontman dei Velvet Undergound, Ndr), e mi ha detto che il primo album dei Velvet Underground ha venduto solo 30'000 copie nei primi 5 anni… È stata un’incisione talmente importante per così tante persone. Sono convinto che ciascuno di quei 30'000 che l’hanno comprato ha fondato una band.” Tornando sui nostri passi, questa relazione si occupa degli anni ‘90 musicali, ma per parlare di quel decennio è necessario ricapitolare ciò che è accaduto in quelli precedenti. Laddove la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 sono stati caratterizzati dall’esplosione dei gruppi punk prima e New Wave e Post-Punk poi. Questi hanno avuto il loro successo nelle declinazioni nell’oscurità del Dark Wave e Gothic Rock grazie a gruppi come Cure, Siouxsie and the Banshees e Bauhaus oppure in esperimenti più ambiziosi in termini di Neoclassica, come i Dead Can Dance, il pop tornava a scalare le classifiche dopo più di un decennio dai fasti dei Beach Boys, Beatles e altri emuli. La rivincita del Pop da Micheal Jackson a Prince, da Kylie Minogue a Madonna combatteva contro i best-seller dei Dire Straits e dei Queen sfondando sempre nuovi record. Un genere di Pop strettamente collegato a ciò che verrà trattato nel capitolo seguente è il cosiddetto Dream Pop.
Nonostante questo genere abbia avuto la sua massima espansione nella seconda metà degli anni ’80 ritengo necessario includerlo da una parte perché fondamentale nel definire l’estetica di un genere che regalerà forse il più grande disco di questo decennio e dall’altra perché i suoi massimi esponenti hanno composto probabilmente l’opera migliore di questa corrente musicale: i Cocteau Twins conHeaven or Las Vegas. I gemelli di Cocteau nascono in una piccola località scozzese dal nome Grangemouth dalla cantante Elizabeth Fraser, dal chitarrista Robin Guthrie (nonché alla drum machine) e dal bassista Will Heggie, sostituito due anni dopo da Simon Raymonde. Dal primo disco si avventurano nel Post-Punk e Gothic Rock con evidenti riferimenti ai Joy Division e ai Siouxsie and the Banshees, ma sarà dal secondo album, Head Over Heels, che entra in gioco il Dream Pop, cambiando le carte in tavola del panorama musicale. Seguono 4 album con cui conquistano critica e pubblico fino ad arrivare al 1990, con Heaven or Las Vegas. Per la prima volta raggiungono la Top 10 degli album più venduti e non c’è da stupirsi: ogni singola canzone è perfetta sia nell’economia della forma-album quanto prese singolarmente, tutto grazie a un lavoro maniacale sulla qualità di registrazione degli strumenti e della straordinaria voce di Elizabeth Fraser. I testi sono meno astratti (o nonsense) degli album precedenti, in quanto molto spazio è dedicato alla nascita della figlia della cantante, ma rimane incredibile il gioco sulla voce che anche quando vengono decantate frasi incomprensibili, in quanto la sensualità che essa trasmette a trasparire. Canzoni come “Cherry-coloured Funk”, brano d’apertura e hit assoluta del disco, o “Frou-Frou Foxes in Midsummer Fires” hanno la capacità di avvolgere l’ascoltatore in un clima caldo (influenzato anche dalla magnifica copertina di Paul West) e sicuro come pochi, ma con molti ascolti si possono sentire i primi echi di quello che verrà definito shoegaze e che approfondirò in seguito: l’inquietudine del familiare e dell’accogliente, forse perché lo è in modo esagerato, che scatena una reazione simile a quella definita come Uncanny Valley.
Come vale per il genere trattato nel capitolo precedente, anche il Noise Rock ha le sue radici negli anni ottanta, ma ritengo importante almeno introdurlo per capirne le sue influenze sullo shoegaze. Tra tutti il gruppo di riferimento non può che essere i Sonic Youth. Nati all’inizio degli anni ottanta dal circolo no-wave newyorkese delle lezioni del Glenn Branca di The Ascension e nello stesso contesto underground degli Swans del folle Micheal Gira, già dagli esordi i ragazzi (Moore, Ranaldo, Gordon e Shelley) dimostrano già il loro potenziale ma arrivano al capolavoro con Daydream Nation, nel 1988. Fondamentale nel genere sono le chitarre - di quattro componenti in tutto a suonarla sono in due più Gordon al basso – e la loro distorsione totale, la cui sperimentazione assoluta sta nelle mani di Ranaldo. Dal costante sottofondo di batteria quest’ultimo si impegna a trovare qualsiasi melodia e nota creando un rumore e una giungla di suoni che vanno sempre più a tessere le folli strumentali che fanno di questo capodopera fondamentale per gli anni ’90. Nota di merito va sicuramente dedicata a Teen Age Riot, inno meraviglioso dell’altro lato d’America, quello nascosto dei giovani in procinto di esplodere a causa dell’ambiente malsano che si ritrovano a vivere. Ma il capolavoro sta altrove, e si tratta della cosiddetta Trilogy, ovvero the Wonder, Hyperstation e Eliminator Jr., episodi in cui la follia è totale e la parola dissonanza potrebbe essere la più giusta da usare.
Letteralmente, “fissa scarpe”, termine coniato all’apparizione di queste band sulla scena britannica accomunati da un atteggiamento insolito sul palco: niente contatto visivo con il pubblico (da qui infatti il termine, dato che guardavano sempre verso il basso), sintomo di un atteggiamento introspettivo. In realtà c’era più di un comportamento a definire gli shoegazer, ed era la ovviamente musica. Le origini del genere possono essere fatte risalire al alla seconda metà degli anni ’80, quando i Pale Saints, band londinese, e i My Bloody Valentine, scozzesi d’origine e londinesi di adozione, fanno uscire rispettivamente “Barging Into the Presence of God” e “You Made Me Realise”. Entrambi hanno imparato la lezione dei Sonic Youth e dei Cocteau Twins, fondendoli insieme nella loro forma più estremizzata. È questo lo shoegaze, l’incrocio apparentemente impossibile tra noise rock e dream pop, in cui l’armonia delle melodie viene deflagrata nel rumore. Qui mi concentrerò su uno dei due gruppi già citati, ovvero i My Bloody Valentine. Dopo una sfilza di singoli, EP e un album nel 1988, “Isn’t Anyithing”, già importantissimo nel ridefinire l’estetica musicale del tempo, nel 1991 esce il secondo disco. Sua maestà, incubo meraviglioso, loveless, senza amore. loveless è l’ineffabilità, ciò che non può essere espresso, è quello spazio metafisico tra sogno/incubo e risveglio. È una Pietà Rondanini nel quale i visi della Vergine e del Cristo sono la melodia che cerca di uscire dal marmo, in questo caso il wall of sound di Spectoriana memoria, una voce flebile che spinge per uscire allo scoperto dall’abisso in cui è incatenato, sormontato dal rumore. Cori d’angelo in un inferno cacofonico e disturbante che portano il quartetto dublinese tra gli olimpi della storia della musica tutta, più in là di quanto chiunque di loro avrebbe mai immaginato. Il termine ethereal, etereo, che era molto legato alle band del dream pop, qui prende nuova linfa, nuova interpretazione, nuova definizione. Se le atmosfere degli Slowdive, altra importantissima band inglese che andrà poi a formare la corona dei capolavori di questo genere insieme a Nowhere dei Ride con l’album Souvlaki, erano tanto mielose e rallentate da portare i critici inglesi a dire ““I would rather drown choking in a bath full of porridge than ever listen to it again. Slowdive? More like slow death”[1] (Piuttosto che riascoltarlo preferirei annegare soffocando in una vasca piena di porridge. Slowdive? Meglio morte lenta.) quella dei My Bloody Valentine è un mondo immerso nel liquido amniotico nel quale ci muoviamo a stento cercando di nuotare ed emergere. È tutto un flusso di suoni amalgamati tra loro per creare più coerenza possibile al suo interno, rendendo meno sensato l’ascolto singolo delle canzoni quanto più la fruizione nel suo delirante insieme. Quando fatichiamo a stare al passo e la vita urge, loveless è una tenera grotta chiusa ermeticamente dove possiamo rifugiarci per quei quarantotto minuti e trentacinque secondi che proiettano davanti ai nostri occhi chiusi tutto ciò che abbiamo esperito, per aiutarci ad alzarci una volta che il silenzio delle nostre cuffiette indicherà che tutto è finito, era solo un sogno da cui dobbiamo destarci.
“Ovvero, quando l’hardcore diventò adulto. Autori glaciali di uno dei più efferati “omicidi” nella storia del rock, i quattro Slint ne seppelliscono i resti ovvi e modaioli,riesumando epocali composizioni sonore”[2] Esordisce così la recensione di Spiderland di Angelo Franzese sul sito di critica musicale OndaRock, e parole più perfette non potevano essere trovate. Così come per loveless, e forse anche di più, come si può parlare di un disco del genere? Come si può mettere in parole l’esperienza musicale più deflagrante fino a quel momento, quel 1991 dove troppi capolavori sono venuti alla luce sugli scaffali, dal grandissimo “White Light From the Mouth of Infinity” dei cigni di Micheal Gira al per me meno lodevole ma comunque importantissimo Nevermind dei Nirvana. Ma soprattutto, come hanno fatto questi ventenni a comporlo, portando una tale evoluzione nel rock da riscontrare loro influenze nella maggior parte del rock alternativo successivo? La prima domanda è ovviamente retorica, la seconda è più interessante. Qual è veramente il cambiamento apportato dal gruppo alla musica contemporanea? Innanzitutto, definiamo cos’è il genere che dà nome al capitolo. Già dal nome possiamo notare una caratteristica: post, dopo, quindi è ciò che viene dopo il rock, che da ora in poi definirò tradizionale ma non intendo nel senso comune, ma come pre-Spiderland. Gli strumenti sono gli stessi ma è il modo di suonare e comporre ad essere nuovo: si mischiano jazz, krautrock, elettronica e in molti casi può anche essere chiamato instrumental-rock, poiché è raro che ci sia del cantato. Ma tornando ai nostri: gli Slint nascono nella seconda metà degli anni ottanta da un gruppo di ragazzini (ricordiamo che all’uscita di Spiderland i componenti erano tutti ventenni) amici d’infanzia di Louisville, Kentucky. Dopo aver passato alcune band arrivano alla formazione ufficiale, ovvero McMahan alla chitarra, Walford alla batteria, Buckler al basso e Pajo all’altra chitarra. Cominciano a lavorare in studio con niente meno che quel pazzo furioso di Steve Albini, leggenda del rock più alternativo e “marcio” che gli USA potessero offrire, con mani in pasta ovunque e leader del gruppo Big Black, che nel 1987 pubblicherà il capolavoro totale del post-hardcore tutto, Atomizer. Ma questa è un'altra storia che meriterebbe decisamente un approfondimento. Eravamo rimasti alle prime registrazione con il nome ufficiale, e due anni dopo, nel 1989, pubblicano Tweez, un lavoro acerbo in cui comunque si sente che i ragazzi hanno qualcosa da dire. Arrivando alla parte fondamentale, parliamo di Spiderland. I ragazzi sono più in forma che mai, registrano i sei inediti, scelgono la foto di copertina scattata dall’amico Will Oldham, tanto tranquillizzante dai loro sorrisi quanto disturbante per il bianco e nero che riflette sulla lucentezza dell’acqua e il paesaggio circostante, e lanciano il disco nel mercato. L’accoglienza non è molto vasta ma dove arriva fa stragi: diventa subito un cult e, a distanza di anni, la critica (quasi) unanime è d’accordo col definirlo uno degli esperimenti musicali più incredibili e seminali mai prodotti. Le danze vengono aperte da Breadcrumb Trail e Nosferatu Man, rimasugli del passato post-hardcore dei componenti. Ma già qui c’è si nota qualcosa: c’è qualcosa che non va, nelle ripetizioni, nell’esplosione del suono che qui si fa implosione. Nosferatu Manè un’ossessiva ripetizione della stessa melodia fino a quando non riesce più a contenerla: nelle parti più violente sembra che la chitarra, come il sassofono di Coltrane nella terza parte di A Love Supreme (senza creare veri paragoni forzati sulla più grande improvvisazione di tutti i tempi), vada per conto suo, cercando di creare un tappeto sonoro distorto ma non riesca a concentrarcisi. Nei due pezzi si alterna l’iniziale Spoken Word di McMahan con l’urlo quasi disperato della prima esplosione della canzone d’apertura, mentre racconta la storia di un ragazzo che esce di casa per cercare una nave pirata ma finisce a innamorarsi e a volare con una chiromante (The girl grabbed my hand, i clutched it tight/I said good-bye to the ground[3]). Se questi primi due esperimenti hanno fondamenti da qualche altra parte, nonostante la loro grandezza, che da sola avrebbe portato qualunque band nell’olimpo, la terza traccia cambia totalmente rotta. Don, Aman è la ripetizione costante di un arpeggio di chitarra che si fa prima più intenso e dopo più tranquillo. Questa è la rivoluzione totale, una delle componenti fondamentali del genere a cui ho dedicato il capitolo, il cosiddetto sistema quite-loud-quite, ovvero una struttura in cui la canzone è in continua salita e discesa di ritmo, simile al minimalismo da Steve Reich al primo Philip Glass (esempio perfetto è l’opening dell’album Glassworks), in cui la ripetizione va a puntare all’analisi completa del suono e delle sue sfaccettature. Segue Washer, brano definibile come romantico in questo asettico ghiacciaio (che mi ricorda l’immagine del Manfred Byroniano), in cui il cantato sussurrato trasmette il calore di cui avevamo bisogno dopo la serie di sferrate precedenti. La penultima traccia è For Dinner…, ovvero la lezione di Don, Aman portata alle sue estreme conseguenze: 5 minuti di batteria e chitarra quasi sfiorate più che suonate, a dipingere un affresco di attesa per un’esplosione ritmica che non avviene mai. Il ritmo continua a salire e si distrugge al culmine, quasi come le costruzioni magnifiche del pianeta Solaris nel libro omonimo di Stanislaw Lem. Arrivati alla traccia finale, un respiro: non si torna alle prime composizioni, probabilmente quelle più orecchiabili e accessibili, ma dopo la claustrofobia e l’angoscia della precedente non si può che essere liberati. Otto minuti di ripetizione di fraseggi chitarristici e chitarre fino a tre brevi esplosioni di distorsione disseminate qua e là. Silenzio. Il disco è finito e nonostante la sua brevità, 6 tracce per 40 minuti, sembra di aver fatto un viaggio tra l’inferno e il purgatorio, con qualche breve sprazzo di paradiso e sulle spalle la consapevolezza di aver fatto uno degli ascolti da cui raramente si potrà prescindere in futuro.
Altra menzione fondamentale per il genere e per comprendere quanto sia ampia la sua definizione è un altro disco imprescindibile quanto distante da ciò di cui abbiamo appena parlato. I canadesi Goodspeed You! Black Emperor, nome preso da un documentario giapponese degli anni ’70 sulle gang di biker, non hanno quasi niente in comune con gli Slint. È stata affibbiata la stessa etichetta ma merita una distinzione. Dopo l’esordio con F#A#∞, già forti di una considerazione nell’ambito underground, rischiano e registrano e pubblicano Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven, esperimento tanto presuntuoso e ambizioso a prima vista quanto coraggioso e incredibile nel risultato.
Quattro brani, o meglio, quattro suite, perché di questo si tratta, nonostante non cadano mai nell’emulazione della musica classica, che non scendono sotto i 19 minuti per oltre un ora e venti di musica strumentale, difficile chiedere così tanto all’ascoltatore medio e nonostante l’enorme devozione tra critica e pubblico rimangono un fenomeno di nicchia. Ma la cosa più importante non sta nel disquisirci attorno, ma ovviamente nella sua fruizione. Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven è pura emozione, dall’angoscia del confronto con la desolazione alla pura nostalgia del ricordo, basti pensare al racconto dell’anziano sulla sua giovinezza a Coney Island, simbolo di un presente decadente di un passato più che sfarzoso, all’inizio di Sleep, oppure i bambini francesi che giocano in Like Antennas to Heaven…. Oggetto difficile tanto da definire quanto da inquadrare per la mole di composizioni in gioco, c’è chi ha voluto distinguerne i diversi passaggi e interpretarli, qua mondo pre apocalisse, qua post, ma mai come con questo monolite misterioso è fondamentale avere il coraggio di immergersi nell’ascolto e lasciare a un altro momento le interpretazione, genuflettersi dinanzi a coloro che, per qualche intercessione, sono riusciti a toccare tendere i pugni come antenne verso il paradiso e rendere a noi comuni mortali l’esperienza in ciò che più si avvicina al divino, l’Arte delle Muse. E quindi uscimmo a riveder le stelle.[4]
Tra le opere trattate forse arriviamo a quella che, nonostante l’ampia schiera di ascoltatori, è quella meno fondamentale nel percorso, senza ovviamente sminuirne la qualità. Enigmatico fin dalla meravigliosa copertina, In the Aeroplane Over the Sea, uscito nel 1999, è il secondo e ultimo frutto della mente dei Neutral Milk Hotel in sé, ma l’impronta del loro leader, il fantomatico Jeff Mangum, è la più importante. La storia narra che questo timido ragazzo dell’entroterra americano abbia letto il Diario di Anna Frank, abbia pianto per tre giorni e deciso di scrivere questo album. Infatti è da qui che prende le fila il concept dell’opera, che richiama più volte la ragazzina olandese, involontariamente una delle testimoni più importanti di una delle tragedie più grandi nella storia dell’umanità. Ciò che aveva colpito tanto Mangum è stata l’affinità elettiva tra lui e Anna, fondamentale nel definire la sua immedesimazione. Da qui parte la storia di uno dei lavori più amati degli ascoltatori dell’Indie Rock, così definito per semplicità, in quanto l’eclettismo dei nostri è difficilmente classificabile. La title-track è una meravigliosa ballata dal testo dall’incerto significato, in Holland, 1945, musicalmente apparentemente fuori posto per la sua vena quasi punk e “caciarona”, viene fatto il primo esplicito riferimento ad Anna e l’autore comincia a intessere avvenimenti della propria vita o di un alter ego con quelli della ragazza (The only girl i’v ever loved/was born with roses in her eyes/but then they buried her alive/one evening 1945/with just her sister at her side/and only weeks before the guns/all came and rained on everyone/now she’s a little boy in spain/playing pianos filled with flames[5]), seguito dal capolavoro del disco, ovvero Oh Comely, stavolta totalmente folk ed emozionante come non mai. La voce di Mangum è potente, a volte al limite dello spezzato, l’arrangiamento è quello di una chitarra acustica che suona sempre le stesse note per oltre sette minuti, per poi cambiare negli ultimi due. Racconti d’infanzia e adolescenza dall’origine incerta creano un legame indissolubile con tutto ciò che è stato messo in gioco, tra giovanili esperienze sessuali e la dichiarazione ad Anna: “I know they buried her body with other/her sister and mother and 500 families/and will she remember me 50 years later/i wished i could saver her in some sort of time machine”[6]. Affermazioni che si fanno disperate e commuoventi sulla sorte di una persona mai conosciuta ma che una volta incrociato il percorso di un artista ne hanno ritratto una delle migliori opere sulla sensibilità mai prodotte.
Arrivati alla conclusione di questo percorso ciò che ritengo fondamentale, oltre tutti i discorsi critici possibili, è l’essere riuscito a trasmettere ciò che ho provato nell’ascoltare i dischi trattati e essere riuscito e suscitare la curiosità di qualcuno. Inoltre la scelta di delineare un discorso intorno a queste opere troppo spesso dimenticate è la mia missione più grande. Per un decennio così pieno, probabilmente a causa della continua evoluzione nella facilità di espressione per ciò che riguarda registrazione a costi bassi e distribuzione, è stato difficile selezionare solo alcune opere: tra i grandi dimenticati posso citare il capolavoro dell’Instrumental Hip-Hop, ovvero Endtroducing… del genio DJ Shadow, il jazz rap dei A Tribe Called Quest con The Low End Theory, il Trip-Hop importantissimo dei Massive Attack o il meraviglioso Dream Pop dei giapponesi Fishmans. Altro però è stato volontariamente omesso: perché continuare a parlare di Nevermind? Ma andando anche nell’alternativo, fiumi di inchiostro sono stati dedicati a Ok Computer, con i Radiohead sotto la guida di Thom Yorke, e cosa potrei aggiungere a un album che trovo anche mediocre? Da qui il sottotitolo della relazione: il mio intento era di raccontare un'altra storia, ben più importante ma anche meno considerata.